Prima pagina di: Un viaggio che non promettiamo breve

In quelle rare giornate nitide, dopo che la tramontana aveva spazzato dall’orizzonte lo strato di lattigine, dalla pianura emiliana vedevi all’improvviso l’arco alpino quasi intero, e persino dalle zone umide del Basso Ferrarese potevi ammirare le Dolomiti, che una mattina di ottobre si distinguevano sasso per sasso e mia madre si era stupita perché così non le aveva mai viste e tutto appariva trasfigurato. In giorni come quelli, se potevi, salivi sui colli bolognesi e dal dirupo di Sabbiuno, dal monumento alle vittime della strage nazista, guardavi a nord e oltre i tetti rossi della città, oltre la pianura chiara, vedevi l’Adamello spuntare da una striscia di rocce azzurre sull’orlo del mondo, e accanto a te compariva il tizio che nei giorni tersi veniva a fotografare col teleobiettivo; tu gli chiedevi i nomi delle cime e lui e te li diceva tutti, il Carega, il gruppo del Pasubio, il monte Baldo, i monti Lessini, e tornavano in mente quei versi di Fabio Pusterla: «In giorni di eccezionale tersità ⎢ sbucano tuttavia, quasi a mezz’aria, ⎢ le cime delle Alpi, tra nuvole: ⎢ le rincorre il pittore, trasognato, ⎢ in lontani triangoli rosa». E il pittore, che in quel momento era un fotografo, indicava a nordovest con l’indice sinistro e diceva proprio: «Quello è il Rosa». Tu seguiva la linea retta e lo vedevi, quello spintonino isoscele era proprio il monte Rosa.

Prima pagina di: Zero K, Don Delillo

Tutti vogliono possedere la fine del mondo.

Questo ha detto mio padre, in piedi, davanti alle finestre all’inglese del suo ufficio di New York: gestione del patrimonio, dynasty trusts, mercati emergenti. Stavamo condividendo un momento raro, contemplativo, col tocco finale dei suoi occhiali da sole vintage che portavano la notte fra quattro mura. Osservavo con attenzione le opere d’arte, vagamente astratte, e cominciavo a capire che quel silenzio prolungato seguito alla sua osservazione non apparteneva né a me né a lui. Pensavo a sua moglie, la seconda, l’archeologa, quella la cui mente e il cui corpo, sempre più provati ormai, presto avrebbero cominciato a fluttuare, come da tabella di marcia, nel vuoto.

Quel momento è poi riaffiorato alcuni mesi dopo, all’altro capo del mondo. Ero seduto, con la cintura allacciata, sul sedile posteriore di una berlina blindata dai finestrini fumé, ciechi in entrambe le direzioni. L’autista, dietro il pannello divisorio, indossava la maglia di una squadra di calcio e un paio di pantaloni da tuta con un rigonfiamento su un fianco che lasciava intendere la presenza di un’arma. Dopo un’ora di strade accidentate, l’uomo ha fermato l’auto e ha detto qualcosa in un dispositivo che aveva sul risvolto della maglia. Poi ha girato lentamente il capo di quarantacinque gradi in direzione del sedile posteriore, verso destra. L’ho preso come il segnale che era il momento di slacciarsi la cintura e scendere. Quel tratto in macchina era stato l’ultima tappa di un viaggio-maratona.